Quarta caffè Lecce: il profumo di un territorio

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In città si dice che una giornata sia il tempo compreso tra due caffè

Si dice che a Lecce una giornata sia il tempo compreso tra due caffè. E quel caffè, aggiungerei io, è immancabilmente “Quarta”, perché quest’azienda espressione di un territorio, rappresenta la sua anima, la sua storia. La narrazione parte, infatti, dagli anni cinquanta quando il cavaliere Gaetano Quarta apre una piccola torrefazione artigianale, un bar di degustazione, il caffè Avio, nel cuore della città. L’attenzione alla qualità del prodotto ne fa subito un punto di attrazione di degustatori. Da allora quel legame con il territorio, con la clientela attraverso la costanza nel mantenimento di un altissimo standard di qualità e la ricerca continua dell’eccellenza, non si è mai interrotto.

Il nostro viaggio in azienda parte dall’ambiente ove sono esposti gli antichi strumenti del mestiere. La moglie del fondatore, Elsa, ci mostra il primo macinino, pietra fondante dell’azienda. In questa sala dimentichiamo di essere in un’impresa e facciamo volare i ricordi, attraverso i racconti della signora. Nell’attiguo spazio bar degustiamo un caffè. Ci viene spiegata anche l’esatta procedura del caffè in ghiaccio con latte di mandorla, di cui Gaetano Quarta fu l’inventore. Il caffè caldo va versato in un bicchiere ricolmo di ghiaccio, addolcito con latte di mandorla. La quantità di ghiaccio è il segreto, altrimenti il calore del liquido scioglie i cubetti causando l’effetto “annacquamento”. Ma con il giusto dosaggio di caldo-freddo l’estasi da degustazione è garantita.

Proseguiamo negli spazi dei segreti, laddove le miscele “Quarta” diventano realtà. L’azienda utilizza, infatti, solo le monorigini più pregiate di arabica e robusta. Osserviamo i sacchi di juta che contengono il caffè crudo in attesa della tostatura all’interno dei capannoni climatizzati per mantenere costante umidità e temperatura. Ci viene spiegato quanto sia delicata la fase della tostatura, processo di cottura che avviene intorno ai 200°, mediante la quale i chicchi verdi assumono la colorazione tipica del caffè tostato. Tempi e temperature diversificate di cottura vengono richieste dalle differenti varietà di caffè, attraverso un processo di “tostatura separata”.

La miscela è, invece, l’alchimia del caffè.  Per raggiungerla è necessario conoscere le caratteristiche di ogni caffè utilizzato, calibrandone con sapienza gusto e carattere. Anche la macinatura risulta essenziale, perché la giusta granulometria del macinato differenzia il metodo di preparazione. Colpisce, infine, l’attenzione al confezionamento per permettere al prodotto di esprimere la sua qualità fino al consumo. Il caffè è, infatti, sostanza viva che deve mantenere intatte tutte le sue proprietà organolettiche e non perdere il suo aroma di tostatura.  “Quarta Caffè” evita le confezioni sottovuoto, perché il caffè respira e deve continuare a sprigionare il suo profumo attraverso il tempo.

Tanto affascinante quanto il viaggio del chicco di caffè è la storia di famiglia, che attraverso generazioni mantiene intatta l’eccellenza di una tradizione, puntando però sull’innovazione, attraverso gli investimenti in nuove tecnologie nel settore “comunicazione” e grande impegno nei confronti della sostenibilità ambientale e sociale. Con il passaggio di consegne dal fondatore Gaetano al figlio Antonio, la spinta alla qualità si è tradotta anche in azioni concrete di valorizzazione ambientale, come la produzione di energia alternativa attraverso la creazione di un grande parco  fotovoltaico e di una torre eolica nel proprio stabilimento. Ma anche la terza generazione è entrata in campo nelle figure di Edoardo, a capo del settore “Innovazione e Sviluppo” e Gaetano (Procurement). Tanta dedizione e tenacia non potevano non riportare straordinari risultati. L’Azienda salentina ha infatti rappresentato l’Italia nei Mondiali del Caffè, WBC (World Barista Championship) che si sono svolti a Dublino nel 2016. Capitanato proprio da Edoardo Quarta con Vito Spagnolo e il campione Angelo Segoni, il team si era già classificato al primo posto ai campionati nazionali di Rimini.

www.quartacaffe.com

Bertinoro: il master dell’Albana di Romagna

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Bertinoro | Primo Master Albana di Romagna

Il paese ha saputo trovare la sua narrazione. Borgo medievale della Romagna, Bertinoro riesce d’impatto a trasmettere ai visitatori una storia di bellezza, intessuta col senso di ospitalità e operosità che connota queste genti. E l’ospitalità, in questo caso, è una filigrana color oro. La leggenda narra, infatti, che a Galla Placidia, in sosta a Bertinoro, fu offerto il vino Albana da un recipiente in terracotta. Degustando il nettare d’Albana prodotto dalle vigne locali, la stessa sentenziò: “Non di così rozzo calice sei degno, o vino, ma di berti in oro”. Un gesto, quello dell’offerta della coppa di vino, che è un chiaro segno di accoglienza. Un vino dorato inscritto nella storia, nelle radici di un popolo. E un nome “Bertinoro” che reca traccia di una stratificazione di significati, magari leggendari, ma che fanno parte di narrazioni popolari che determinano il carattere di una popolazione nella storia e nel tempo.

Il “1° Master Albana” ha dato modo agli appassionati del vino, esperti del settore, enologi, imprenditori vitivinicoli o neofiti, di approfondire l’universo Albana, il primo vino bianco in Italia a ricevere nel 1987 il riconoscimento D.O.C.G., la Denominazione di Origine Controllata e Garantita, come attestazione della sua storicità e del suo legame con il territorio.

Introdotto dai Romani, questo vitigno rappresentativo della Romagna ha trovato a Bertinoro, e in generale nelle colline di Forlì e Cesena, il terroir adatto a conferire all’Albana complessità e struttura. Un tempo era il vino dei contadini, ma negli ultimi decenni la produzione ha ritrovato nuovo vigore, grazie al perfetto connubio tra tradizione e innovazione nei processi di vinificazione che ne hanno aumentato gli standard di qualità, mantenendo però inalterati i tratti del suo carattere. Quei tratti che destano meraviglia già al primo sorso.

Bertinoro | Le campagneNon era facile raccontare la capacità distintiva di questo vino di grande personalità, non paragonabile ad altri nel mondo per sapore, colore e profumi. Ma la kermesse è riuscita nell’impresa di trasmettere il valore di un’unicità, espressione di un territorio altrettanto unico, coinvolgendo produttori e appassionati in una celebrazione che guarda al futuro. Una celebrazione coniugata in esperienza alla Ca’ de Bé, prima enoteca dei vini di Romagna, dove i commensali hanno potuto degustare l’Albana e i suoi possibili abbinamenti, nella cena a tema sui suoi “profumi e sapori ”.

Non solo Albana. La Fattoria Paradiso di Bertinoro è un luogo mitico. Le foto appese ai muri narrano un pezzo di storia dell’enologia di Romagna e del suo apprezzamento nel mondo. Ma soprattutto raccontano la storia di Mario Pezzi, geniale produttore di vini, cui si deve la riscoperta dei vitigni autoctoni Barbarossa, Cagnina e Pagadebit. Varcare la cantina è come entrare in un “Sancta Santorum”. L’esperienza è emozionante. Le pareti che costeggiano la scala sono impreziosite da bottiglie di storiche annate della cantina. L’enoteca è un tempio dedicato alla conservazione e alla tradizione del vino. Qui si respira il valore della cultura nel tempo.

Tradizione e valori familiari anche al Caseificio Mambelli, le cui produzioni tramandano le antiche sapienze artigianali. Pur avvalendosi di moderne soluzioni tecnologiche, i prodotti mantengono intatta la genuinità e la naturalezza dei prodotti di un tempo, evitando qualsiasi trattamento artificiale. Specialità cult: lo squacquerone di Romagna D.O.P. e la ricotta ottenuta dal latte. Quest’ultima venne prodotta per la prima volta da nonna Elsa, utilizzando metodi artigiani. Degno di nota è l’utilizzo dell’acqua termale delle Fonti di Fratta, situate proprio a pochi chilometri da Bertinoro. Tali acque, ricche di sali minerali, oltre alla pienezza del sapore, garantiscono la totale naturalezza di un prodotto senza l’impiego di sali da laboratorio.

Naturalezza è la parola chiave per comprendere un altro luogo del cuore di un territorio che riserva sorprese. Ca’ Bevilacqua è un bed&breakfast di charme, immerso in 3 ettari di verde. Il letto di antica foggia, immerso nel bosco, stampato nella cartolina di presentazione ci invita al relax, alla meditazione. Siamo nel cuore della Romagna e siamo altrove. Le zebre, i marabù, i fenicotteri, le gru, le cicogne e i pappagalli che incontri nel parco possono sembrare miraggi, ma sono reali. E questo potente senso di straniamento, garantisce di certo il riposo, attraverso una magnifica esperienza di distacco.

Una storia di ospitalità e operosità, avevamo detto all’inizio. Il senso di un abbraccio che domina un territorio fatto da genti che amano condividere tra loro e con gli altri. Il nostro viaggio non poteva che concludersi sulla Rocca Vescovile di Bertinoro, costruzione difensiva del X secolo che si fonde sugli speroni di roccia. Oggi la Rocca, oltre a essere sede del Centro Residenziale Universitario legato all’Alma Mater Studiorum di Bologna, ospita il Museo Interreligioso, un “unicum”, spazio di incontro e dialogo tra i tre monoteismi: Cristianesimo, Ebraismo e Islam. L’aspetto comparativo del percorso museale, segnato dalla riflessione e dal confronto, rimanda a quei valori di tolleranza, accoglienza e integrazione, tratti culturali distintivi di questo territorio, di grandi aperture, di grandi orizzonti.

Quell’orizzonte vasto che si apre dalla terrazza della piazza di fronte al Palazzo Comunale. Al centro, un simbolo di cui i Bertinoresi vanno giustamente fieri: la Colonna delle Anella, detto anche dell’ospitalità. A ogni anello corrispondeva una famiglia. Legando il cavallo a una delle dodici anella, il pellegrino poteva individuare la casa che lo avrebbe accolto. Un rito, quello dell’ospitalità, che ha radici antiche; un accordo in nome del dialogo sancito per superare le rivalità sul territorio. Un rito, simbolo dell’accoglienza verso gli stranieri e dell’amicizia tra i popoli, che viene rievocato anche ai giorni nostri la prima domenica di settembre; ma che può essere rinnovato ogni giorno anche sorseggiando un calice di Albana.

Sito del Comune di Bertinoro

Gallipoli incorona la cozza nera tarantina

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Cozza nera tarantina: disposizione in un piatto
(foto di Jimmy Pessina)

Una serata di degustazione dedicata alla cozza nera tarantina, prodotto principe dei due mari. Il progetto itinerante di promozione del territorio tarantino ha vissuto un’altra significativa tappa a Gallipoli. Cinque chef pugliesi (Massimo De Matteis, Fabio Colizzi, Vincenzo De Giorgio, Igor Orlando e Angela Zaza) si sono cimentati nella preparazione di antipasti, primi e secondi piatti, tutti rigorosamente a base del mitilo del mar Piccolo, nel contesto del Festival della cucina italiana con la cozza tarantina. Magistrale il lavoro di coordinamento in cucina, svolto dagli executive chef Adriano Cozzolino di Isernia, Vincenzo Piccolo di Latina e Onofrio Terrafino di Gallipoli. Straordinarie sono state le alchimie create dagli chef, nell’esaltazione del prodotto ittico, anche attraverso l’armonia compositiva nella presentazione dei piatti. La degustazione è stata, infatti, un crescendo di sapori ben abbinati che valorizzava il prodotto, suggerendone accostamenti creativi, apparentemente inconsueti. Ma al palato perfettamente riusciti.

Alla fine, l’ha spuntata il giovane Igor Orlando con “Le Chenelle di Totani di Gallipoli su guazzetto di pomodorini di Morciano e Cozze Tarantine”. Il piatto, che offriva una sapiente declinazione alle potenzialità del prodotto, ha infatti ottenuto il maggior punteggio, tra i voti raccolti da una giuria composta dagli ospiti dell’Hotel Sirenè del gruppo Caroli che, per celebrare i cinquant’anni di ospitalità attraverso le proprie strutture ricettive, ha commissionato al Centro Renoir di Taranto, presieduto dal Cosimo Lardiello, una serata del Festival.

Prologo della manifestazione, avviata nel 2001 e che ha portato con grande successo il nome di Taranto e del suo “prodotto principe” in giro per l’Italia e all’estero, la visita di alcune alcune aziende salentine del settore alimentare e in particolare ittico. Gli allevamenti (spigole, orate e ombrine) in mare aperto dell’Azienda Reho Mare, in località Torre-Susa, Racale. A due kilometri dalla costa, si respira quella forza di mare e correnti che garantisce una produzione di pesce sodo e magro, di eccellente sapore ed elevata digeribilità. Il progetto, unico in Italia e nel Mediterraneo, nasce dalla visione e dalla straordinaria caparbietà dei cinque fratelli Reho che, per primi, hanno sperimentato il sistema di sabbie galleggianti in mare aperto, ancorato a un fondale di circa 40 metri di profondità in un habitat marino unico e incontaminato. Le criticità affrontate dalla nascita del progetto, dieci anni fa, a oggi hanno consolidato il successo di una missione imprenditoriale che valorizza un prodotto territoriale di qualità, distribuito in giornata e con una precisa carta d’identità, il sigillo INMARE, che ne garantisce la tracciabilità.

Un’altra tappa significativa del Tour è stata la visita all’azienda agricola “I Contadini”. Condotta oggi dalla terza generazione, l’Azienda valorizza la vocazione territoriale salentina alla produzione degli ortaggi e pomodori, favorita da particolari condizioni climatiche, composizione dei terreni e influenza marina. L’essicazione naturale di molti ortaggi ha, inoltre, il pregio di preservare le qualità organolettiche e nutritive dei prodotti, che vengono poi conservati in olio di oliva, senza aggiunta di conservanti e ricettati in modo semplice e artigianale. Ma non possiamo non citare il Cafè dei Napoli, in località Alliste, dove il titolare Giovanni Venneri alla prepara il suo “pasticciotto”, risultato anche vincitore del primo “Pasticciotto day”, svoltosi la scorsa estate a Torre Pali.

Divulgare la conoscenza di un prodotto tipico locale promuove non solo il turismo enogastronomico, ma anche l’immagine complessiva della città da cui quel prodotto prende vita. Ed è con questo intento che 16 anni fa, Lardiello ha dato vita al “Festival” itinerante che ha visto in Gallipoli un’altra importante tappa della sua gloriosa storia.

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“Slow Food Story”: la metamorfosi corporea di Carlo Petrini

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“Questa operazione, in fondo, ci è costata poco. Un pacco di savoiardi portato alla puerpera quando è nato lui. Dalle nostre parti si usa così”. Il lui, in questione, è Stefano Sardo il regista di Slow Food Story e le parole di Carlo Petrini ci fanno capire che questa è una storia di famiglia che coinvolge un intero paese. Sardo nasce, infatti, a Bra nel 1972 e molti della sua famiglia hanno lavorato per il movimento. Per questo, nello scorrere le immagini del film si respira aria di casa, una sorta di dimensione amicale, ludica e seria nel contempo. Protagonisti, oltre al leader indiscusso, i suoi amici più cari tanto che la voce narrante è affidata ad Azio Citi che si definisce un “passante” in una vicenda più grande. Una storia di provincia che si è fatta “Mondo”.

Terra, amicizia, paese ma anche molto “corpo”. Quello di Carlo. A scorrere le immagini del film, balza all’occhio proprio questo. La narrazione di un corpo, quindi, dove si legge la capacità di trasformazione, la flessibilità nell’accogliere nuove sfide volgendo le difficoltà in opportunità. Una fisicità che parla molto e che si evolve seguendo i diversi momenti della sua vita e del movimento, dove tutto avviene nell’ambito di una coerenza politica. Perché quando si prende posizione, la politica diventa la vita.

Il Petrini giovane, quello che si dà alla politica in senso stretto, è un uomo pieno, più rotondo, dalla vitalità contagiosa. Le capacità di coinvolgimento degli altri sono già enormi. I limiti posti alla sua attività lo portano a saltare il fosso, aggirando l’ostacolo, diventando per paradosso un politico al cubo, perché come dice lui “chi governa il ventre dell’umanità ha in mano il mondo”. Lui lo intuisce e ad ogni tappa della sua passione arriva primo. La nascita dell’associazione Arcigola, la fondazione del movimento Slow Food, la creazione della Casa Editrice, il successo della pubblicazione Osterie d’Italia, il Salone del Gusto di Torino, la nascita dei Presidi, Terra Madre, fino ad arrivare alla creazione della prima Università di Scienze Gastronomiche al mondo, quella di Pollenzo. È una crescita esponenziale: la lumaca va veloce. Come nel paradosso di Achille e la tartaruga.

slow food storyMentre il suo corpo si trasforma. La malattia lo scava, lo rende affilato, facendolo assomigliare ad un dipinto di El Greco, una sorta di santo laico, dal passo aereo e lo sguardo fondo di chi vede lontano. Ha le doti del grande comunicatore perché tocca il cuore ed emoziona. Ma riesce ad emozionare solo chi entra in empatia con l’altro, chi lo sente, lo riconosce. Lui ci riesce. Sa coinvolgere tanto il capo di stato che il contadino dell’altra parte del mondo. In questo è grande. Nell’unire, perché, come dice, “da soli non si va da nessuna parte”.

Al contrario di tanti professoroni che rendono difficili i “monoconcetti”, i “monoargomenti” frutto di pervicaci carriere, lui riesce a rendere fruibile l’estrema complessità del “mondo cibo”, dove contenuti agronomici, sociali, culturali, antropologici si intrecciano agli scottanti temi economici dei nostri tempi.

Tutto è connesso. Ogni scelta è etica, “valoriale”, dalla scelta delle sementi per la tutela della biodiversità, la preservazione di antichi metodi colturali, la produzione e la trasformazione dei prodotti fino ad arrivare alla distribuzione del cibo. Un intero sistema che va salvaguardato da scelte meramente produttivistiche che trasformano il cibo in “commodity”, merce indifferenziata. E questa è politica. Una politica che incide sulla nostra salute, sulla nostra vita, ma anche sulla nostra idea di piacere, perché questo è il miglior modo per prendersi cura di noi stessi, contribuendo alla tutela dell’ambiente, perché la nostra casa è il mondo. Non è qualcosa di disgiunto. Come la chiocciolina del movimento che, a questo punto, non è solo il simbolo di un animale lento, ma anche di un essere che si porta dietro la sua casa, il suo mondo. Ma a voler essere visionari come è stato Carlo, e quelli che hanno creduto al suo sogno, la chiocciola rappresenta anche una spirale, segno di evoluzione interiore per chi si sente parte del tutto.

Il film, presentato in anteprima al Cinema Quattro Fontane di Roma anche alla presenza del produttore della Indigo Film, Nicola Giuliano, sarà nelle sale dal prossimo 30 maggio.

Slow Food – sito ufficiale – www.slowfood.it

Il cuore piccante di Rieti

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peperoncino
(fonte dell’immagine)

Il peperoncino e le sue infinite declinazioni. L’oro rosso ci stupisce da sempre per forma e contenuto. Prodotto antico, ma di straordinaria vitalità nel tempo attuale per i suoi molteplici usi (non solo gastronomici, ma anche curativi ed estetici), meritava da tempo una “celebrazione” che fosse anche un momento di profonda riflessione, intesa come ponte di collegamento tra passato e presente per suggerire una proiezione sul futuro delle potenzialità anche commerciali di questa spezia universale.

La manifestazione “Rieti Cuore Piccante”, ospitata nella città dal 21 al 24 luglio ha il pregio di colmare questa lacuna, unendo in un unico contesto la Fiera Campionaria Mondiale del Peperoncino e la Mostra Mercato Prodotti Tipici al Peperoncino. Le piazze della “Città centro d’Italia” accolgono ben 400 varietà, provenienti dai 5 continenti.

Organizzato dall’Associazione Peperoncino a Rieti con la collaborazione della Camera di Commercio, la Coldiretti, l’Associazione Commercianti e la fattiva collaborazione dell’Accademia Nazionale del Peperoncino, l’evento con i suoi convegni, mostre, incontri e concorsi (premio per il miglior piatto e premio internazionale giornalismo gastronomico, RietiPic) ha regalato grande visibilità al prodotto, attraverso un’immersione totale nelle proprietà uniche del “Capsicum”.

Colore, sapore, consistenza, proprietà si uniscono infatti in perfetta sintesi alchemica in questo straordinario prodotto, dalla storia antichissima. Testimonianze del suo uso nelle aree del Messico e del Perù risalgono a 10.000 anni fa e già nel 5.500 a.C. lo si coltivava in modo continuativo; ma fu Cristoforo Colombo nel 1514 ad importare in Europa il peperoncino che ben presto divenne il competitor naturale del pepe nero, anche per la facilità ad essere coltivato nell’area del Mediterraneo. Ma oggi, pochi sanno che nonostante il crescente consumo e utilizzo del “capsicum”, in Italia oltre l’80% viene importato dall’estero, soprattutto da Pakistan, India e Messico. In alcuni casi si tratta di prodotti di qualità inferiore, spesso arricchiti con il Sudan, colorante nocivo alla salute.

L’Italia potrebbe diventare uno dei principali produttori mondiali di peperoncino perché possiede peculiarità territoriali e microclimatiche tali da favorire la coltivazione della spezia rossa che, se consumata fresca, mantiene intatto il suo apporto di vitamina C. D’altro canto, in materia di salute, sono noti gli effetti benefici del peperoncino per numerose sintomatologie che vanno dalla cefalea, l’arteriosclerosi, l’artrite, i reumatismi, le malattie cardiovascolari fino ad arrivare alla depressione, considerato che anche la medicina ayurvedica indiana sostiene che il peperoncino “stimola lo spirito e il sangue”. Ma senza andare troppo lontano, noi tutti abbiamo sperimentato, dopo una buona pasta “aglio, olio e peperoncino” quel senso di piacevole eccitazione e sana ebbrezza che ti prende.

Sensazioni provate anche durante la serata di presentazione dell’iniziativa a Palazzo Rospigliosi a Roma. Cena di distinzione e d’istinto, come ha sottolineato lo chef Fabio Campoli. Distinzione tra le specie di peperoncino, provenienti da altri continenti. Distinzione tra le portate, pensate e servite in una loro “forma” e “spazio” per esaltare composizione cromatica, sensi e istinto. L’istinto nell’interpretazione artistica di un menù “piccante” che ha unito in maniera sapiente, nella rivisitazione della tradizione, l’Italia al resto del mondo. Distinzione, istinto, passione, gusto, salute, estetica e business. Il peperoncino: questo e molto altro.

Altre informazioni: il peperoncino su Wikipedia

San Valentino: vibrazioni d’armonie sul palato

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dolcetti di San Valentino
Esistono luoghi dove il tempo si ferma e viaggia a ritroso per concederci suggestioni e ricordi di atmosfere carezzevoli da film in costume. Entrando nell’Hotel Quirinale, a Roma, ci si lascia alle spalle il traffico intenso di via Nazionale per godere di una fluttuazione temporale di sapore rétro, fatta di eleganza, stile e buona educazione. Dimentichiamoci il modernismo minimale e asettico dei soliti locali, ormai pensati in serie, perché qui tutto emana calore e vibrazioni musicali. Il suono del silenzio è quello delle note, perché l’Hotel Quirinale con alle spalle il Teatro dell’Opera conserva un passaggio segreto con accesso riservato diretto al Tempio romano della Musica.

Gli aneddoti si rincorrono. L’Albergo ospitò Verdi ed il trionfo del suo Falstaff. Qui soggiornarono la Callas, Puccini, Toscanini, Caruso e la Duse, ma scelgono oggi questo luogo ed il suo splendido giardino tutti quelli che vogliono mettere tra parentesi la concitazione del presente per godere di un bel momento. L’Hotel Quirinale racconta storie di fine Ottocento e mantiene intatti spazi dove anche oggi puoi ritrovare l’intimità di un tempo pieno e lento, come quando il raccoglimento sposa il senso del gusto.

Vibrazioni d’armonie sul palato. Per scegliere la giusta partitura di una bella serata d’amore, l’Hotel Quirinale propone una cena di San Valentino da non dimenticare. Nel Ristorante Rossini, incastonato nella struttura come una pietra preziosa, si degusta un menù creato per l’occasione dallo chef dell’Albergo, Mauro Pavia. Allievo di Gualtiero Marchesi, lo chef predilige i prodotti di stagione ed il suo stile, pur rispettoso della tradizione italiana, colpisce per originalità e senso della composizione. Sapienti gli accostamenti di gusti, strutture e colori.

Il menù degli innamorati si apre con una sfoglia di mango con gamberi marinati all’arancio in filo di cioccolato fondente: accostamento ardito e seducente. Per primo: una vellutata di rapa rossa allo zenzero con spuma di crescenza, rossa di passione ed evocatrice d’Oriente; per proseguire con una crema di bufala al nero di seppia con ravioli di branzino e calamaretti, delicata e forte al tempo stesso nel sapore e nel chiaro-scuro del cromatismo. Quindi, un filetto di ricciola al profumo di limone su pesto di zucchine e cipolline borettane caramellate che colpisce per contrasti di sapori e consistenze.

Infine, una leggerissima sfogliata di pasta fillo croccante con ganache di cioccolato fondente al peperoncino e crema bianca agli agrumi, per concludere con una nota agro-piccante una serata molto dolce

Hotel Quirinale – Via Nazionale 7 – 00184 Roma – Sito ufficiale