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Durante l’isolamento del primo lockdown, ragazze e ragazzi si sono cimentati nella scrittura di racconti di fantascienza ispirati alla pandemia.

Il successivo reading on line ha suggellato il senso di condivisione di quell’assurda situazione, sollevando riflessioni e dibattiti.

Una sorta di Decameron 2.0 per riaffermare la vitalità dell’essere, contro il senso di morte, attraverso la narrazione.

2022  DI NINA BERSANI

Oggi è lunedì 3 febbraio e sono appena tornata da scuola.

Il coronavirus non è passato, non lo abbiamo eliminato.

C’è ancora, ma è  più raro.

Il mondo è tornato a girare come prima, senza mascherine né guanti;

nelle case i disinfettanti non sono più un bene di prima necessità, ma nulla è passato. E’ solo peggiorato.

Certo, non si nota!  Non è un’ansia impulsiva.  Non è una di quelle ansie che non se ne vanno neanche se ti rinchiudi in un barattolo! E’ più leggera, alle volte persino inesistente,

Ma il problema c’è ed è molto peggio.

Non vorrei fare la melodrammatica, però non siamo al sicuro.  Non qui.

Il coronavirus è ancora una minaccia per noi, per tutti noi; è meno frequente, anzi è proprio un’altra malattia.

Il primo settembre 2020 si è trovato un vaccino. Dicevano che avrebbe eliminato, sterminato il coronavirus ma nulla di tutto ciò avvenne.

Questo vaccino era stato provato solo su animali che facevano da piattaforma per lui. Per esattezza, lo hanno provato sui topi e aveva funzionato; quindi, lo presero per buono e annunciarono questo miracoloso vaccino. Qui, proprio in questo momento, avvenne l’inizio della fine.

La prima persona che fece il vaccino era una donna americana che stranamente stava bene. Quindi, il vaccino sembrava funzionare. Dopo un mese, questo vaccino non era ancora arrivato in tutti gli ospedali italiani.

Ma l’americana vaccinata urtò il braccio di un uomo; lui si mise a tossire, gli venne la febbre alta nel giro di pochi minuti, un forte mal di gola, poi cadde a terra per il troppo dolore muscolare e infine morì.

La signora sconvolta chiamò l’ambulanza e la polizia. In sintesi, l’accaduto diventò una notizia mondiale.

Dopo pochi giorni, iniziò a succedere a più gente in America e poi anche nel resto del mondo.

Tutti si chiusero in casa. Non uscivamo nemmeno per andare a fare la spesa o per buttare la spazzatura, ma non servì a nulla. La malattia arrivava comunque.

Passava anche attraverso l’acqua corrente o i muri.

Gli scienziati lo chiamarono coronavirus 2.0, ma io preferisco chiamarlo morbo olistico, una malattia senza confini e senza limiti; una malattia che sceglie da sola chi colpire, una malattia che non si può combattere.

Una malattia ignota a occhio umano, insomma una malattia olistica, per cui tutto è collegato, ma anche nulla è collegato. Ora il mio compito è capire come, come lei può fare tutto ciò, come può una malattia capire l’interconnessione di tutte le cose e soprattutto come può colpire una persona a sua scelta, senza un motivo vero.

Tra l’altro, le malattie non hanno un cervello, quindi come può accadere tutto questo? O è una condanna divina o non si spiega!

Comunque, dopo 6 mesi che cercavano una cura, senza risultati, capirono che non c’era scampo da questa malattia olistica; quindi decisero di far tornare tutto alla normalità.

Ora la malattia è più rara, molto meno frequente, ma a me tutto questo non convince. Infatti, ieri ho fatto delle ricerche e ho scoperto che il primo contagiato era un terrorista che aveva ucciso più di 70 persone in un attentato e la maggior parte delle persone contagiate in seguito erano in prigione o ricercati per omicidio; altri erano stati cacciatori e, cosa forse più importante, uno degli unici sopravvissuti alla strage olistica del carcere di Rebibbia poi fu scoperto non colpevole.

In questi giorni, le stragi e gli omicidi dolosi sono molto rari e quando accadono non c’è nemmeno bisogno di mettere in carcere l’assassino, perché lui è già morto.

Anche la caccia diminuisce, nel senso che mangiamo ancora carne, ma solo biologica e morta di vecchiaia o comunque vissuta bene e felice.

Quindi probabilmente questo morbo olistico colpisce solo assassini e cacciatori, ma perché?

Non riesco a capire che nesso ci sia, perché questa malattia colpisce solo le persone cattive o i cacciatori?

Cosa hanno fatto i cacciatori di brutto? È la legge del più forte che funziona così!

Non riesco proprio a capire. Gli assassini ok sono cattivi ma… come fa una malattia a scegliere chi uccidere!?

Poi ho capito! Avevo capito perché colpiva i cacciatori!

Li colpiva perché tutto il coronavirus è nato per colpa di un pipistrello mangiato, di un pipistrello tranquillo magari con una famiglia che era stato ucciso proprio da lui, da un cacciatore!

Quindi questa malattia non è un morbo olistico. Non è una malattia!

È la natura a essere olistica; è la natura che ha deciso di punirci per come ci siamo comportati in tutti questi anni!

Quindi… sì, avevo ragione! E’ proprio una condanna divina.

Ora c’è solo da capire come evitarla.

Roma; San Lorenzo; 23/8/2034
Diario di Nerone  DI LEO CONTE

Resoconto annuale

Dopo la recente scoperta del vaccino che protegge gli animali dal Covid-19, la mia vita non è più turbata da quell’ansia di attaccare il coronavirus ai miei schiavi umani e per festeggiare ho dormito tutto il giorno.

Quando hanno trovato il vaccino big, ovvero il vaccino che protegge una gran parte della popolazione “inferiore”, la mia vita e quella dei miei schiavi è cambiata molto.

Nell’anno umano 2020, durante la quarantena, i miei schiavi personali erano tristi, intimoriti e facevano come me; ovvero stavano tutto il giorno sul divano e nel letto a pisolare. Non uscivano mai, soltanto per andare a fare la spesa; il che mi dava molto fastidio, perché non avevo mai casa libera.

Ma, stando più in casa, c’era più tempo per coccole e grattini  che, come ben sai, mi piacciono molto.

Questi stupidi umani non hanno capito che i gatti sono i loro padroni. Credono che i gatti siano dei semplici animali, invece siamo noi i padroni e noi comandiamo.

Dopo la scoperta del vaccino big, la popolazione inferiore è iniziata ad uscire dalle regge di noi padroni gatti. Erano tutti impazziti! C’erano alcuni servi che baciavano la terra in lacrime per la gioia! Dopo il 4 maggio tutti gli schiavi iniziarono ad uscire di casa per fare le passeggiate e andare al ristorante. Soltanto una cosa è rimasta chiusa: i parrucchieri e i barbieri, ma gli umani protestarono e il governo fu costretto a riaprirli.

Dopo la scoperta del vaccino, le cose cambiarono assai. La distanza minima diminuì e diventò di mezzo metro, perché il vaccino copre la maggior parte della popolazione, ma non tutta. La gente però continua a non fidarsi, per cui non utilizza più le macchine, ma monopattini, pattini e skate.

Gli umani hanno inventato delle enormi macchine volanti, che assomigliano a delle rondini spennate e fanno il rumore delle api: servono a controllare gli umani e a portare i pacchetti da una casa all’altra. Ho provato a morderne uno, ma sono velocissimi e in più i miei schiavi mi hanno urlato contro, dicendo di non rovinare i droni perché costano tantissimo.

Il mio schiavetto piccolo continua a studiare davanti al computer via zoom, ma due volte su cinque va a studiare a scuola. Finalmente, ho un po’ di casa libera!

L’unico modo per avere casa completamente libera è che gli scienziati trovino il vaccino definitivo e che la vita ritorni come prima.

Anno 2040 – Storia di un pidocchio dei libri di EMANUELE DI TANNA

A causa della grave malattia “fiocco di neve” scoppiata nel 2020, i Presidenti di tutto il mondo hanno attuato il progetto “Iberniamoci”.

Grazie alle recenti conclusioni sull’ibernazione,  scoperte dal professor Xizor (Arabia Saudita), tutti gli animali e le persone del mondo fecero un salto nel futuro al 2040. Tutti, tranne me.

Mi presento: sono Jack, il pidocchio dei libri e – non per vantarmi – ma sono il più intelligente fra gli insetti.

Questa storia, la mia storia, la storia di questi vent’anni di solitudine inizia quando quello stupido ragno (la guardia), davanti alle cabine di ibernazione, affermò: “Ci dispiace! Posti esauriti!”.

Fu in quel momento che me ne accorsi: ero l’ultimo della fila.

Sprofondai nella disperazione, stavo quasi per svenire: come avevano fatto a dimenticarsi di me? Così me ne andai, in preda allo sconforto, verso la mia casa in periferia, nel mio secchione della carta.

Furono 15 anni difficili, 15 anni di fuga.

La malattia “fiocco di neve” gira nell’aria, anche se non c’è nessun contagiato ed è come se avesse degli occhi. Se ti vede, viene ad attaccarti. È chiamata così perché ogni bacillo può sembrare simile all’altro, ma in realtà sono tutti diversi.

È per questo che devi essere molto cauto: un passo falso e sei fritto.

Quando c’erano ancora tutti, ho sentito dire che le pareti delle case umane erano super rinforzate e che l’unico modo per avere cibo erano droni telecomandati direttamente dai supermercati.

Ora non c’è niente di tutto questo.

Dopo poco meno di un anno, finirono le risorse del secchio della carta: avevo bisogno di cibo.

Mi tornarono in mente i droni del supermercato. Mi sarebbe bastato impossessarmi del telecomando e avrei avuto cibo a volontà!

Mi incamminai verso il supermercato più vicino: era un Emmepiù dietro l’angolo.

Potevo quasi sentire il virus che si avvicinava, ma entrai nel supermercato, che aveva le pareti rinforzate: ero al sicuro.

Mentre cercavo il telecomando, mi venne in mente una cosa: la malattia sarebbe scomparsa? Un futuro utopico sarebbe mai esistito? Oppure la fine del mondo era segnata? E soprattutto, le cabine di ibernazione si sarebbero scongelate? Un singolo errore nel meccanismo avrebbe potuto intrappolare miliardi e miliardi di essere viventi (a parte i cani, che sono stati troppo stupidi a non capire che era l’ibernazione quello che ci serviva!).

A un tratto, questi pensieri furono offuscati dal ritrovamento del telecomando: funzionava ancora!

Presi un po’ di cibo e andai via dal supermercato.

Sulla strada per tornare a casa, vidi un’ombra che si allungava verso di me. Pensai che ero l’unico essere vivente non ibernato sulla terra e che il virus non aveva un’ombra.

Spaventato, mi avvicinai e vidi che in fondo alla strada si trovava un insetto. Ripassai a mente i sintomi della malattia “fiocco di neve”: i puntini blu (come il morbillo, ma blu), il soggetto vede bianco al posto del rosso, lingua gonfia, saliva viola.

Non mi pareva avesse niente di tutto questo. Così mi avvicinai ancora, finché non lo riconobbi: era John la termite, il mio caro amico!

“John, da quanto tempo!”: dissi io.

“Jack, che bella sorpresa! Anche tu arrivato in ritardo all’ibernazione?”: disse John.

“Non proprio. Diciamo che mi hanno cacciato fuori perché erano finiti i posti!”

“Ma pensa un pò” disse John “E io che avevo prenotato per noi due un posto in prima classe, vista tombino!”.

Sempre il solito John, pensai. Poteva dirmelo prima! Ecco perché i posti erano finiti…

Dopo tutto questo, pensammo di passare questi lunghi anni insieme.

Cominciai a pensare che non  era poi così male vivere in questa epoca: era come vivere in uno di quei giochi di sopravvivenza, in cui fuori ci sono gli zombie e tu non devi farti vedere.

Poi, nel 2035 la malattia finì e iniziarono i 5 anni più belli della mia vita: era come se il mondo fosse nostro e scoprimmo molti posti nuovi, senza più doverci nascondere.

Ora che siamo nel 2040 le persone cominciano ad uscire dalle cabine, con sguardi disorientati e io sono qui ad aspettare che tutti si risveglino. Ma io ne sono certo, quello che abbiamo vissuto io e John in questi vent’anni, non lo vivrà nessun altro.

ODC 19 DI ALESSIO MONTUORI

Sono le 4:00 di mattina e davanti ai miei occhi vedo finalmente L’ODC19.

È di una forma strana, sembra quasi antica, fatta di lucide lamiere che riflettono la luce del sole e dopo un po’ che la guardi, ti fa male la testa. Penso mi manchino ancora 2 giorni circa per arrivarci, eppure sembra vicinissima.

Nessuno dal 2454 ha provato ad entrarci, ma io sono pronta a farlo e non mi fermerà nessuno.

Sento una sensazione inconsueta, mi sento quasi a casa, penso, perché è da tanto che non percepisco una voce umana.

Tutto questo solo per uno stupido errore, l’errore che stava per far estinguere la razza umana. Tutto è successo quando non ero ancora nata, ma la storia la conosco benissimo.

Credo fosse il 2020 quando è stato ricoverato il primo infetto e la situazione sembrava ancora sotto controllo.

La prendevano così tanto alla leggera, la situazione, che nel 2024 come se niente fosse, hanno iniziato la colonizzazione della Luna.

Certo non avevano pensato ai rischi che potevano esserci a portare un virus nello spazio.

Quando i primi astronauti fecero ritorno sulla terra, li misero in quarantena come la metà della popolazione mondiale; ma avevano sottovalutato il virus.

Penso di non essere infetta, ma nessuno ne è sicuro.

Si tratta di una malattia degenerativa che ti dimezza la durata della vita, ma ancora non si sa se sia vero.

So soltanto che questo è quello che hanno detto i telegiornali nel 2050. Poi, tutti si sono “azzittiti”, nessuno diceva niente, mentre il numero di abitanti sul pianeta calava drasticamente.

Nessuno uscì mai più di casa, comprando tutto su siti come Amazzonia o qualcosa del genere, che dopo solo 5 anni divennero l’unica organizzazione che aveva dei soldi.

Continuò così per un intero anno fino a che la popolazione mondiale, tutta  unita, attaccò la grande organizzazione.

Non si sa se fecero bene o male! Comunque, si sa che tutti gli abitanti della terra ebbero per 40 anni solo e solamente cibo fatto in casa.

Si scoprì solamente dopo 10 anni che esisteva un movimento che cercava gli individui non infetti e che li portava sani e salvi nell’ ODC19.

Il sole sta calando le gambe mi tremano. Penso che mi devo fermare.

Nell’immensa distesa arida e vuota, scorgo in lontananza una specie di grotta. Mi dirigo verso di essa.

Sembra vuota ma è immensa; mi stendo accanto a una roccia per dormire e subito mi passano migliaia di pensieri per la testa.

Penso soprattutto a zia Marilyn: lei mi è stata sempre vicino, dalla morte dei miei genitori e mi ha anche salvato la vita…

Ero da sola dentro casa e non potevo avvertire nessuno, dal momento che tutte le strutture per le comunicazioni si erano distrutte con gli anni. Ogni tanto però, un po’ di persone che avevano la fortuna di possedere delle tute protettive, creavano una connessione tra le case della gente e poi passavano per chiedere in cambio del cibo o medicine.

Avevamo la possibilità di parlare con i nostri familiari solo per 30 minuti e diciamo che quello era il più bel momento della vita di ogni uomo.

Delle volte, però, non mi andava di contattare nessuno per paura di sapere della morte di un mio parente.

Gli amici non esistevano; nessuno si conosceva se non per rapporti familiari.

Tutti vivevano in un’immensa tristezza….

Quel giorno, però, arrivò in casa zia Marilyn con una tuta. Arrivò quasi subito dopo la morte dei miei genitori.

Da piccola, pensavo che potesse leggermi nella mente ma poi ho scoperto che faceva parte dell’Odc19.

Un giorno, la vennero a prendere e non ritornò mai più.

Allora mi sono messa in cammino per ritrovarla ed eccomi qua a circa un giorno di distanza da lei.

Appena svegliata, mi sono messa in cammino e dopo circa 12 ore sono arrivata davanti a quella grossa struttura. Non ci sono porte né finestre: tutto chiuso.

C’è una scala che sale fino in cima, dove la luce del sole cocente non mi permette di vedere.

Inizio a salire e sembra non finire mai: la pendenza non cala. Salgo per ore e poi per giorni interi, accampandomi di tanto in tanto.

È strano, da terra sembrava che la struttura fosse una sfera e invece più sali più ti sembra ripida.

Dopo più di 8 giorni di scalata, mi trovo davanti a una botola.

Ci entro e vedo un mondo, un mondo abitato.

Come un cilindro con una gravità circolare.

Con case sottosopra e a terra.

L’umanità non si stava estinguendo, stava rinascendo, abbandonando all’esterno tutti gli altri.

Chissà se qualcuno di loro sapeva cosa stava succedendo fuori!

Magari qualcuno sapeva ancora del resto dell’umanità, ma io glielo devo dire…devono sapere che fuori ci sono persone che vivono e lottano ogni giorno per sopravvivere! Lo devono sapere!

ESSENTIAL DI NICCOLO’ PAGLIONI

Mi sveglio un in un luogo buio ed insolito, illuminato in alcuni punti da luci fredde e poco funzionanti. Su un bancone sono posate forbici, pinze e altri oggetti da laboratorio che, nello scontrarsi, producono un suono simile al tintinnio di  quando le chiavi del portone si urtano con quelle della porta d’ingresso. Accanto a me, si intravede  una struttura che credo serva a cibarmi, ma in questo momento è spenta.

Mi alzo dal lettino in ferro molto scomodo e inizio a  “scrocchiare” tutte le parti del mio corpo dalla testa ai piedi. Non so quanto sia passato dall’ultima volta che ho visto la luce del sole o della luna; ma penso sia trascorso circa un giorno.  Questo pensiero  muta subito nella mia mente, quando esco da questa specie di laboratorio e inizio a ricordare …

Ero piccolo, avevo circa 13 anni e mi ero ammalato di questo virus molto pericoloso per le persone adulte, che attaccava le vie respiratorie, fino a causare una polmonite. Ero molto tranquillo per via della mia età e della certezza incosciente che non sarei sicuro morto per questo virus.

Ma un giorno andai semplicemente a ritirare un pacco, un pacco che avrebbe segnato la storia della mia vita. Infatti, questo imballaggio era infetto e presi il corona virus. Sentivo nelle mie vene come il veleno di un serpente che piano piano si muoveva attraverso il corpo fino ad arrivare nei polmoni. Da questo momento in poi, i miei ricordi si fanno confusi, sono come degli  scatti di una fotocamera molto vecchia. L’ ultima cosa che ricordo era un ago nel mezzo del mio petto che tirava fuori qualcosa di agghiacciante: il presunto corona virus!

Oggi, mi ritrovo qui nel nulla a parte palazzi così scoraggiati di vedere il paesaggio intorno che sono crollati su sé stessi. Infatti, il paesaggio era formato da asfalto, cassonetti, un caseggiato posto in cattive condizioni e dei camioncini dispersi nel vuoto. Mi avvicino all’automezzo e …un buffo signore mi offre una busta con dei vestiti, del mangiare e da bere. Nel mentre fraseggia, ma non capisco niente: sarà che mi sono appena svegliato, dopo non so quanti anni! Quindi, con calma, gli chiedo cortesemente di ripetere. Questa volta capisco; mi dice che per un alloggio sicuro dove dormire, mi posso recare nel caseggiato di prima. In realtà, quel gruppo di case sono fornite dallo stato per far dormire chi non ha una casa. Io, per ora, mi accontenterò. Nella busta ci sono anche delle chiavi con su scritto il numeretto 12. Quindi, mi reco verso la casetta numero 12 dove trovo un’altra persona, Tom, con  il quale  dovrei condividere la stanza . Gli pongo qualche domanda su cosa è accaduto e lui risponde con gran piacere. Così inizia la sua storia:

“ Ai tempi del corona virus, qualcuno stava escogitando un modo  per convertire quest’ ultimo e far in modo che attaccasse anche tutti gli oggetti tecnologici. Un anno dopo telefoni, televisioni, computer e satelliti vennero rimossi completamente. Oggi, siamo tranquilli. Viviamo la vita con l’essenziale. Preferisco di gran lunga questa vita!  Quella di prima  nemmeno si può chiamare vita! Siamo tutti uguali  adesso, sia a livello  economico che  sociale. La vita è questa! E’ aiutarsi a vicenda, avere uno scopo. Tutte queste realtà che prima erano annebbiate dalla tecnologia che ci allontanava dal nostro lato umano!”: queste sono le parole che uscirono dalla bocca di quell’uomo umile e saggio che mi accompagnò per il resto dei miei giorni.

IL CERCHIO DI ANNA SAVOCA

Da ogni casa partiva un lungo tubo di plastica trasparente, che portava in qualunque parte della città, senza nemmeno uscire dalla porta. A quell’ora i tubi erano vuoti, all’interno non c’erano persone, ma solo qualche foglia che svolazzava portata dal vento. Sofia sapeva bene il perché di quel deserto cittadino: era il momento della disinfestazione quotidiana. Ogni giorno, alle 19 in punto, entravano nei tubi degli strani omini vestiti con una tuta bianca e un’enorme maschera, accompagnati da strani macchinari simili ad aspirapolveri.

A Sofia non piaceva quel mondo, certe volte si chiedeva il perché di tutta quella sicurezza. Un giorno, lo chiese a sua madre e lei le rispose che 70 anni prima il mondo era stato invaso da un misterioso virus, di cui adesso nessuno ricordava più il nome. L’unico modo per saperne di più era andare a chiedere a qualcuno del Cerchio. Il Cerchio era una comunità formata dagli anziani di ogni città che si incontravano ogni giorno per decidere il futuro. All’interno del Cerchio c’era solo una grande ed importantissima regola: tutti i membri dovevano essere vissuti nell’epoca del virus. Quando i testimoni di quello strano periodo sarebbero stati tutti morti, il Cerchio si sarebbe sciolto e si sarebbe creata un’altra comunità, formata da persone che avevano vissuto esperienze difficili e particolari.

Sofia voleva delle risposte, delle risposte vere, non le solite favole che le raccontava sua madre quando era piccola. Perciò, una notte di tempesta decise di andare a parlare con i membri del Cerchio. Si era preparata uno zaino e dentro ci aveva messo tutto quello che pensava sarebbe potuto servirle: una torcia, una penna, un taccuino digitale, un panino (per le evenienze) ed infine uno strano oggetto che sembrava essere a metà tra un orologio e un’enorme bussola. Si vestì di nero, si mise un cappello per coprire le sue lunghe ciocche bionde e, appena sentì che il respiro dei suoi genitori era talmente forte da non poterli svegliare, partì.

Senza la luce del sole, i cubicoli erano tetri e inquietanti. All’interno non c’era alcun tipo di illuminazione e, non essendoci il bisogno di uscire per le strade, tutti i lampioni erano stati rimossi. Non c’era niente a rischiarare il cammino di Sofia. Ad un certo punto, le venne in mente uno strano pensiero: quelle tenebre le ricordavano proprio la sua città. Non avevano niente che le potesse illuminare e così ogni sera, dopo il tramonto, la città e le menti degli abitanti venivano ricoperte da uno scuro velo di tristezza.

Strani rumori aleggiavano su Roma quella sera, rumori di cui Sofia non si era mai accorta prima, ma cercò di non farci caso e proseguì per il suo tragitto. Verso mezzanotte arrivò di fronte a una grande cupola bianca e blu con un grandissimo portone in legno di quercia logorato dal tempo. Sopra c’era una targa di ferro dipinta di verde con su scritto “IL CERCHIO” con grandi caratteri rossastri. Sofia bussò una volta, due volte, tre volte, la quarta volta venne finalmente ad aprirle un piccolo signore, vestito con una strana tunica con un sole disegnato sopra e una lunga barba bianca che gli pendeva dal mento.

“Che vuoi ragazzina?” le chiese il vecchio con un’espressione leggermente infastidita.

“Voglio conoscere ciò che è accaduto” rispose Sofia. Con un’aria vagamente divertita lo strano ometto le fece segno di entrare e la accolse in un grande salone dai toni dorati.

Quell’enorme stanza aveva qualcosa di magico. Infatti, appena Sofia entrò fu accecata da un chiarore abbagliante; ma dopo un po’ si accorse che non c’erano finestre né lampadari. Era come se quello strano luogo brillasse di luce propria. Al centro del salone c’era un enorme trono ricoperto d’oro con dei diamanti incastonati nel retro. Tutto intorno, poste a cerchio, c’erano delle poltrone di legno con i cuscini ricoperti di velluto scarlatto: erano più piccole del trono, ma ugualmente imponenti.

Sopra quello strano podio dorato era seduto un vecchio, doveva essere il capo del cerchio e Sofia pensò che poteva avere all’incirca 80 anni. Solo più tardi, scoprì che quell’incontro avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Intorno alla guida del Cerchio, c’erano sedute una cinquantina di persone, sempre tra gli ottanta e i novant’anni. L’uomo che aveva aperto il portone a Sofia tornò a sedersi su una delle poltroncine e solo all’ora la ragazza si accorse che tutti all’interno della stanza indossavano la stessa veste, a parte l’anziano seduto sul trono.

“Io sono Giovanni, e lui è il nostro capo, Matteo.” disse l’ometto che l’aveva accolta, indicando in direzione del trono. “Lui ti darà le risposte che cerchi” proseguì.

“Voi andate via” disse Matteo agli altri membri del Cerchio. Così lui e Sofia rimasero soli, soli in cerca di risposte, l’uno dall’altra.

“Cosa vuoi sapere?” disse Matteo a Sofia.

“Tutto” e così, con quella piccola parola di appena 5 lettere iniziò a raccontare, così come aveva chiesto Sofia, tutta la storia.

“Avevo nove anni, e a nove anni il mondo è un parco giochi, tutto ci sembrava un divertimento, ma ci arrabbiavamo per le cose semplici ed era così che mi sentivo, ero arrabbiato. Non so di preciso con chi, forse con il mondo, oppure ero arrabbiato e basta. Certe volte non abbiamo un motivo!” cominciò. “Mi ricordo esattamente quando è iniziato, era un mercoledì di marzo, il 4 marzo più precisamente. Ho ancora in mente la voce del maestro, “Portatevi la roba a casa che forse chiude la scuola!”, disse. Ero al settimo cielo, mi sarei potuto divertire con i miei amici, giocare a basket, andare al parco, invece tutto questo non successe. Anzi, durò 4 giorni, poi arrivò la notizia al telegiornale: “Da domani, tutti a casa!”.  Mi ricordo solo quelle parole. In realtà, all’inizio non capivo il perché, non capivo nemmeno perché avessero chiuso le scuole. Non potevo vedere i miei amici, era quello l’importante.”

Sofia lo guardava, meravigliata e spaventata al tempo stesso, lei come avrebbe reagito al suo posto?

“Era strano – continuò – ma certe cose mi piacevano, le apprezzavo. Mi ricordo che passavo interi pomeriggi a guardare la tv su un vecchio programma chiamato Netflix, ma poi ogni volta arrivava mia sorella a dire “Guardiamo qualcos’altro?” e io le dicevo sempre di sì, perché sapevo che in questo modo lei mi avrebbe abbracciato e mi avrebbe detto che mi voleva bene…però, non era tutto rose e fiori eh, soprattutto per me, che mi muovevo di continuo. Quella casa era diventata come un recinto invalicabile. E poi, dovevo studiare lo stesso. Le lezioni si facevano con dei vecchi computer, che adesso ormai non producono più; ci vedevamo col maestro e i compagni per un’ora al giorno. In quel periodo, ho capito tante cose, ad esempio, che spesso non ci accorgiamo di quanto è importante una cosa fino a quando ci viene portata via. Pensa alla scuola per esempio, a te piace la scuola?” chiese il vecchio

“Non molto, mi annoia” rispose Sofia.

“Anch’io ero, come te, odiavo alzarmi presto la mattina per andarmi a sedere su un banco”

“Un banco?” chiese stupita Sofia

“Già, a quell’epoca si usava così. Ma come ti dicevo anche a me non piaceva! Ma in quel periodo è stata la cosa che mi mancava di più, i rimproveri, le partite di calcio in cortile, i miei compagni, le schede, i quaderni, lo zaino pesante da portare la mattina. Non sapevo quando avrei riabbracciato queste cose! Era come se mi avessero portato via ogni certezza.”

“Pensavi mai al futuro?”

“Oh certo che ci pensavo, immaginavo che quando tutto si sarebbe sistemato, sarei potuto correre dai miei amici, abbracciarli e giocare con loro. Ma niente di tutto questo successe. Quando aprii la porta di casa, vidi che un grande tubo bloccava la mia uscita verso la libertà. Io speravo addirittura in un futuro migliore, dove uomo e natura sarebbero stati amici, dove tutto si sarebbe risolto, ma era solo la sciocca utopia di un bambino con la passione degli animali. Vedevo i miei amici attraverso un vetro, e da quel vetro parlavamo, giocavamo, ma senza potersi abbracciare.”

Sofia a quel punto piangeva, grosse lacrime argentee le cadevano dagli occhi di cristallo per andarsi a posare sulle sue guance candide. Ma Matteo proseguì il suo racconto

“Tu ti se mai rotolata in un prato? Hai mai corso su un prato, un prato vero, con l’erba umida e le margherite che spuntano dappertutto? Hai mai annusato una rosa per sentire il suo profumo forte e delicato insieme? Hai mai vissuto davvero?”

“No, mai” rispose Sofia, “Allora vai e inizia a vivere!”

Sofia si mise a correre e sentiva i capelli sfiorarle gli occhi, ma continuò fino a quando non arrivo al tubo e, preso il suo zaino, lo scagliò sulla parete con tutta la sua forza fino a quando non lo ruppe. Corse fuori, arrivò al parco e respirò, respirò con forza. Quando decise che si era riempita i polmoni di quell’aria mai sentita prima, urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Urlò contro la sua famiglia, contro gli uomini dei tubi e contro la società. Si sdraiò sull’erba a guardare le stelle, e pensò che in quel momento il cielo era più vicino che mai.

DOPO IL VIRUS DI ALICE LEANZA

Tict tac, tic tac.

Le mani sfiorano la tastiera del computer, velocemente. Le dita fanno una leggera pressione sui tasti, ormai rovinati dalle numerose ore di lavoro; il movimento è costante e monotono. Tutto continua senza interruzioni, senza differenze, è tutto uguale ma nessuno sembra accorgersi di ciò.

E’ ormai un’abitudine per le persone odierne lavorare sempre e costantemente davanti a uno schermo.

Gli occhi degli uomini sono spenti, nessuno lo nota. Nessuno si ricorda delle abitudini passate, nessuno sembra curarsene.

Tic tac, tic tac. Le ore passano, silenziose.

Ricordo vagamente i pomeriggi passati assieme a mio nonno. Ero piccolo,

avevo solamente otto o nove anni, ma già mi trattava come un adulto. Eravamo seduti su due grosse poltrone, una di fronte all’altra; e mentre parlavamo, scrutavamo l’orizzonte da una grande finestra. Osservavamo i monti coperti da un soffice e spesso strato di neve.

Quanto avrei voluto essere lì, durante quelle giornate invernali! E di primavera, indicavo a mio nonno tutti i nascondigli segreti degli uccelli, dove si trovavano i loro nidi sepolti da foglie e fiori colorati.

Ormai le stagioni non si distinguono più.

Io e mio nonno parlavamo del futuro. A lui piaceva fantasticare e insieme

pensavamo alle idee più strambe e creative: automobili volanti, case nello spazio, città sottomarine. Ma la cosa che lo rendeva più felice era che tutte le persone sarebbero state più unite, avrebbero passato più tempo insieme. Avrebbero avuto l’occasione di scambiarsi più parole, più risate.

Mio nonno non aveva mai avuto una vera e propria infanzia; gli era stata negata da una grossa epidemia che aveva caratterizzato gli anni durante i quali era solo un bambino. I suoi amici erano lontani, i soldi erano pochi. Entrambi i suoi genitori lavoravano come camerieri in un ristorante e, quando è scoppiata l’epidemia, sono stati licenziati. Non era una bella situazione, quella che aveva vissuto mio nonno!

Quando finalmente era sicuro poter uscire di casa, tutti erano cambiati. Le

Persone, una volta solari e sorridenti, erano diventate diffidenti e si evitavano a vicenda. Tutti sospettavano l’uno dell’altro, indossavano ancora le mascherine, nonostante non ce ne fosse bisogno. Piano piano mio nonno e i suoi amici si erano lentamente separati, per poi perdere completamente i contatti dopo solo pochi anni.

Per questo mio nonno sperava in un futuro migliore per me, una vita dove le bugie e i sospetti non ci fossero più, un mondo dove gli uomini si fossero riconciliati.

Peccato! Lui non è riuscito a vedere il mio futuro come avrebbe voluto, ma sono sicuro che sarebbe stato deluso.

Nessuno si parla. Pare che sia scoppiata una nuova epidemia, ma nessuno se ne accorge. Le persone non si incontrano, comunicano a distanza attraverso programmi che dovrebbero unire gli uomini, ma realmente li separano sempre di più.

Ogni tanto spero in un nuovo virus, un virus che questa volta, invece di infettare i polmoni umani, infetti le macchine. Forse allora potremmo finalmente tornare a riabbracciarci.

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