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“A bordo della nave Cruise Roma della flotta Grimaldi, in partenza da Civitavecchia, diretta a Barcellona, mi riconnetto alla mia anima antica di nomade, di esploratrice dell’ignoto”.

L’uomo è teso verso orizzonti aperti: lo sguardo si perde all’infinito. Come l’Ulisse dantesco che riprende il suo viaggio per scomparire oltre le colonne d’Ercole. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”: le parole del sommo poeta mi risuonano nella testa.

Questo viaggio sulla nave Cruise Roma della flotta Grimaldi, direzione Barcellona, mi ha riportato a questa dimensione di apertura. Quello spazio arcaico, ancestrale che alberga nell’inconscio di ogni individuo. La tensione al viaggio, all’esplorazione.

Siamo stati chiusi per oltre due anni nelle nostre case, minacciati da un nemico invisibile, che ha pervaso i nostri pensieri di paura, limitando spazi e movimenti. Una sorta di prigionia, di inimmaginabile reclusione. Opportunità, per alcuni, anche di uno straordinario abisso interiore, verticale: anche questo pregno di tappe, di scoperte, di significati.

Ma ora su questa nave posso finalmente tornare a viaggiare. In un modo diverso. Senza fretta. Laddove l’approdo non rappresenta la meta. E’ soltanto la seconda parentesi di uno spazio di dilatazione personale. In mezzo c’è l’ignoto. E quello spazio racchiude un mare di sensazioni, di scorci, di visioni in un tempo sospeso: quello del non fare, senza stress, senza improvvise accelerazioni.

Senza impegni o scadenze, posso stare sulla nave a godermi l’attimo presente. Quell’insieme di attimi presenti che diventano vita. Una vita veramente meritevole di essere vissuta.

Mi riconnetto alla mia anima antica e collettiva. Di tutti quegli uomini antichi o attuali che hanno attraversato e attraversano mari. Impressioni, malinconiche, riflessioni, turbamenti. Nomadismi, scambi commerciali, viaggi lenti: le rotte del mare ci riportano a questo. Ci riconducono dentro liquidi amniotici di memorie d’acqua che non sono solo le nostre. Appartengono all’intero genere umano. Forse potremmo definirle riaffioranti “rimembranze” cellulari che, come affermava Leopardi, appaiono tanto più belle in quanto vaghe e indefinite, come tutte le cose poetiche.“E il naufragar m’è dolce in questo mare”.

Visito la nave, scoprendo inusitate geometrie architettoniche; scrutando le persone che sostano al bar o al ristorante, assaporando tempi lunghi anche di deglutizione. Apprezzo gli arredi dal sapore vintage che mi riportano a tempi in cui eravamo più felici, ma non ne eravamo consapevoli. Tempi di lunghe chiacchierate senza scopo, fatte solo per scambiarsi vero nutrimento esistenziale. L’ecologia interiore del vero vivere.

Cammino sulla nave, cadenzando i passi, prendendomi il lusso di scrutare la distesa d’acqua dagli oblò. Momenti persi questi, i migliori. Belli come una tela intonsa, come l’attesa di un pensiero improduttivo. Per alcuni, il niente è come l’infinito. Momento di fissità assoluta. Momento meditativo.

E il blu intenso inquadrato dall’oblò diventa un quadro. Come l’opera testamento del regista Derek Jarman. Sfinito dalla malattia, ormai cieco, poteva contemplare solo i toni del blu. Una dolente narrazione autobiografica di fine vita dietro un unico fotogramma di tonalità oltremare.

Ma il viaggio è lungo. Il tempo cambia. Ora l’acqua è piatta come una tavola. Un attimo dopo appare increspata. E’ giorno. E’ notte in questo deserto d’acqua. Come in una pittura di Monet, concentrato a rappresentare lo stesso soggetto, sempre cangiante al passare delle ore. Rendere visibile l’alba o un tramonto in un’opera d’arte. Sensazioni trasposte in materia. Tangibili intermittenze del cuore.

E dietro questa pura astrazione di luce e di pensiero, c’è tutta la ciclicità della vita. Tutto scorre, diceva il filosofo. Anche la stessa cosa cambia. L’inquadratura si trasforma.

E questo deserto liquido cambia di tonalità di attimo in attimo. Appare celeste nel mattino a rispecchiare il mare. Poi azzurro intenso, quindi blu, fino al nero dell’oscurità. Un’oscurità punteggiata di stelle. Quelle stesse stelle che offrivano una mappa celeste ai viaggiatori. Quello stesso cielo che ci prospetta, dalla notte dei tempi, trascendenti prospettive. E anche questo è un bel viaggiare! L’unico che ci dia un vero scopo, il senso legittimo di una profondità esistenziale.

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